L'A-more è la forma che diamo al bisogno più importante

L'A-more è la forma che diamo al bisogno più importante
Vittorino Andreoli, psichiatra che all’autorevolezza aggiunge la capacità di parlare a tutti, è il protagonista dell’edizione dell’Ama Festival 2022. Il verbo che dà il titolo a questa edizione gli è ovviamente molto famigliare: sull’amare e sull’amore ha scritto tantissimo, partendo sempre dalla esperienza concreta della pratica professionale.
 
Professore, che cosa le suggerisce questo titolo con punto esclamativo?
L’amare è il senso stesso della vita e nel punto esclamativo leggo una giusta sottolineatura rispetto a questo dato di fatto che il narcisismo dominante nella nostra cultura tende a cancellare. Ho elaborato una mia ipotesi etimologica sulla parola amore. La scrivo «a-more», dove «more» è contrazione di morte e la «a» ha un significato privativo. L’amore quindi cancella la morte. È l’opposto della morte; quindi è vita. Non si deve però stringere il campo alla relazione sentimentale tra due persone che si innamorano. L’amore vince la morte in ogni relazione affettiva, che sia tra genitore e figli, o tra vecchi e giovani. L’amore è la forma che diamo al bisogno esistenziale più importante: quello di relazionarci con l’altro.

Uno dei suoi lavori più recenti si intitola «Psicologia del noi». È una riflessione in cui entra questa sua idea dell’amore?

Sono partito dal dato di fatto della mia esperienza personale e professionale: più passa il tempo e più sento il limite dell’impostazione freudiana del Casi clinici, in base alla quale per capire la persona e i suoi problemi, bisogna guardare dentro la persona, esplorandone la psiche. Per me è un’ipotesi inadeguata. Se vuoi capire il singolo devi capire come ama, quali relazioni ha: l’identità è data dalle identità che si incontrano vivendo. Ognuno di noi ha davanti due possibilità: o vivere stando in relazione, o morire specchiandosi come Narciso. Personalmente sono quasi nauseato da questa centralità dell’«io». Bisogna partire dal dato di fatto che se un individuo è solo si trova in una situazione patologica. Però essere soli non significa non fare esperienza della solitudine, che è cosa che tocca tutti: anche un monaco sceglie la solitudine, ma in realtà è sempre in relazione con il Padre Eterno. «Io vivo con Dio», mi aveva risposto un monaco. Anche nel suo caso è centrale l’esperienza di questo «noi». Io vivo con Dio», mi aveva risposto un monaco. Anche nel suo caso è centrale l’esperienza di questo «noi».
 
Ci può essere anche una dimensione del «noi» chiusa, settaria, escludente?
Certo. Ad esempio quella di chi pensa che l’amore sia una solo una relazione a due. Il «noi» è quello che si apre ad una socialità, che introduce la categoria del «nostro» contro il dominio del «mio». È una dimensione più ampia che non quella degli amici. Forse la cooperazione è la pratica sociale che più si avvicina a questa dimensione positiva e necessaria del «noi».

Che rapporto c’è tra amore e bellezza? Chi viene prima?
La bellezza è un’aspirazione che ogni uomo ha dentro di sé. La bellezza è attrazione, e l’amore scatta sempre per un’attrazione, verso l’altro, ma anche verso un aspetto della vita. La bellezza è seduttiva, perché gene- ra la pulsione all’incontro con l’altro. Mette in campo i corpi. Trovo che questo sia un punto centrale: non condivido l’idea di Dante, quando nel Convivio sostiene che la bellezza sia un’esperienza destinata alle anime. Invece è dal corpo che rinasce tutto, dal sentire, toccare, vedere. Aver voglia dell’altro è sintomo di salute psichica: ma l’altro è un corpo, non un’anima o un’idea.

Lei in un lavoro recente ha coniato un neologismo: «bendessere». È un’alternativa all’idea corrente di «benessere»?

Sì. E siamo ancora alla scelta tra l’«io» e il «noi». Benessere è cura narcisistica del proprio corpo, confidando nelle pratiche oggi tanto in voga del footing, della ginnastica o anche della meditazione. Il «bendessere» invece stabilisce che il primo fattore di salute per una persona è lo stare in relazione e il sentirsi accolti. Non demonizzo le pratiche di cura del corpo, ma nella vita e per il benessere di una persona conta molto di più la dimensione del vivere insieme, dell’aprirsi al rapporto con gli altri. La considero una strategia esistenziale, che può prendere le forme più diverse, compresa quella religiosa, se la religione è incontro e quindi espansione dell’esperienza umana. Se parte dal basso e non parte da Dio ed è quindi aspirazione ad una relazione. Il campo di applicazione della psicologia del «noi» riguarda da vicino il benessere di ciascun individuo: non c’è un solo momento della nostra vita in cui non siamo legati all’altro, dunque la relazione è fondamento dell’esistenza. Il bambino, quando nasce, è perduto se non trova la madre che lo nutre e lo riscalda. E lo stesso vale per l’adulto, come ha recentemente dimostrato il lockdown, durante il quale ci siamo resi conto sulla nostra pelle che non siamo fatti per vivere da soli. Abbiamo sempre bisogno dell’altro perché siamo fragili ed è proprio la nostra fragilità che ci porta a «esperire» il legame, cioè a farne esperienza. 

06/10/2022

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