Il ben-essere chiede tenerezza
«Non si tratta di conoscere le malattie – parola che non dovrebbe mai essere usata – non serve a nulla se non sappiamo viverle, per un attimo, come se fossero nostre». Parola di Eugenio Borgna, grande psichiatra, attento comunicatore, che concepisce la sua attività medica come ricerca del dialogo e come ascolto.
Professore, partendo dalla sua lunga esperienza, come definirebbe uno stato di “salute”?
Parlare di salute per me è parlare innanzitutto della fragilità. È l’aspetto costitutivo della nostra condizione umana. Cosa saremmo come persone, se la nostra per- sona venisse stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine? E poi aggiungo anche dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto? La consapevolezza della fragilità e del bisogno è la premessa per affrontare il tema della salute. Ognuno ha le sue fragilità, ma tutte hanno una comune connotazione umana. Avere questa consapevolezza è la premessa per liberarsi da un’idea di salute come controllo a volte ossessivo della propria condizione fisica o psichica. Invece va ribaltata la prospettiva, partendo dall’esperienza della fragilità che non è un meno, ma al contrario è come una grazia, una linea luminosa tracciata nelle nostre vite. È come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni stagione della vita. Naturalmente c’è anche la fragilità che è come un’ombra, una notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende incapaci di una tenuta emozionale e di fedeltà. Dobbiamo saper distinguere, ma, in nome della paura di questa seconda fragilità, non possiamo negarci l’esperienza dell’altra fragilità che ho paragonato ad una grazia.
Parlare di salute per me è parlare innanzitutto della fragilità. È l’aspetto costitutivo della nostra condizione umana. Cosa saremmo come persone, se la nostra per- sona venisse stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine? E poi aggiungo anche dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto? La consapevolezza della fragilità e del bisogno è la premessa per affrontare il tema della salute. Ognuno ha le sue fragilità, ma tutte hanno una comune connotazione umana. Avere questa consapevolezza è la premessa per liberarsi da un’idea di salute come controllo a volte ossessivo della propria condizione fisica o psichica. Invece va ribaltata la prospettiva, partendo dall’esperienza della fragilità che non è un meno, ma al contrario è come una grazia, una linea luminosa tracciata nelle nostre vite. È come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni stagione della vita. Naturalmente c’è anche la fragilità che è come un’ombra, una notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende incapaci di una tenuta emozionale e di fedeltà. Dobbiamo saper distinguere, ma, in nome della paura di questa seconda fragilità, non possiamo negarci l’esperienza dell’altra fragilità che ho paragonato ad una grazia.
Di fronte alle tante esperienze di quella fragilità negativa, come si pone in quanto psichiatra?
Quando si incontrano esistenze sbandate a livello psichico si constata che esse non sono segnate da disturbi del pensiero, quanto da emozioni ferite dalla tristezza e dall’angoscia, dalla inquietudine dell’anima, dal dolore del corpo e dal dolore dell’anima. Ma non comunichiamo con coloro che stanno male e che sono lacerati da emozioni ferite, se non riconosciamo queste persone come parte del nostro comune destino. L’obiettivo perciò è ricostruire la comunicazione perduta, che è possibile ritrovare solo nella misura in cui le parole di chi cura sono capaci di ridestare fiducia e speranza. Il medico nel fare domande, nel ricostruire la storia di una vita, nell’esporre le conclusioni diagnostiche, deve essere sincero, ma deve contemporaneamente tenere presenti le risonanze emozionali, l’angoscia, che alle parole possono conseguire, e deve guardarsi dal ferire la dignità delle persone malate e non malate, con parole, con gesti che nascano dall’indifferenza e dall’impazienza.
La cura dunque è anche un fatto di buona comunicazione?
Ci sono sguardi che curano e sguardi che accrescono il dolore, sguardi che attendono una risposta e sguardi che anticipano una risposta, ancora più pericolosi degli sguardi dell’indifferenza. Quanto tempo dedichiamo ad ascoltare parole e sguardi con cui le parole ci sono dette? Al di là dei percorsi razionali, accanto alle strade della filosofia, non possiamo non considerare che il nostro dire, anche quello ora tra noi, prende delle vie che sono determinate dal tono della voce e dall’interiorità che si manifesta. C’è bisogno di tenerezza nel comunicare.
Tenerezza, una parola che le è cara....
Certo. La tenerezza è la più fragile e la più evanescente delle emozioni, cambia la sua forma sulla scia di quello che accade in noi e fuori di noi. La tenerezza anima il nostro modo di vivere e di curare, ci fa sentire l’altro come persona non come cosa, aiuta ad immedesimarci nella vita interiore degli altri e a farne riemergere le attese e le speranze. La tenerezza si esprime con il linguaggio delle parole, e con quello del corpo vivente. Uno sguardo, un sorriso, una lacrima, una stretta di mano, una carezza, un abbraccio ne sigillano i modi di essere. La tenerezza aiuta a conoscere, a lenire le ferite dell’anima, e quante incomprensioni e quanti sogni infranti eviteremmo, se la tenerezza non ci fosse sconosciuta e ci seguisse nel cammino della vita. La tenerezza ha un suo fragile tempo interiore, quello di un presente, non mai chiuso in sé, ma aperto al passato, alla memoria e insieme al futuro, all’attesa, quindi alla speranza.
05/03/2024