La soglia

Ora che sono fuori ho paura, tutti quelli che hanno fatto la galera hanno paura del fuori, sanno che tutto probabilmente ricomincerà come peggio di prima, ma che cosa si può fare, che può fare uno come me? Di Giampiero Renzi.


Dopo tre anni finalmente sto uscendo da questo posto, c’è ansia eccitazione finalmente la matricola mi chiama mi vengono restituiti i documenti i soldi il foglio che mi viene consegnato dice fine pena. L’ultimo portone mi si chiude alle spalle. Sono libero. E’ maggio, un cielo limpido e ginestre in fiore, foglie alberi e un caldo stupendo. L’occhio mi si dilata trovandomi di fronte mia sorella gli tremano le labbra mi accarezza i capelli, il viso, fatico a trattenere le lacrime ora ricordo, ricordo tutto, ogni momento che ti sei caricata sulle spalle della mia vita mentre mamma stava morendo dentro un ospedale per un tumore te ne ho combinate di tutti i colori (frase adolescenziale) ma forse proprio per questo hai deciso di non scrivermi più durante questi anni non siamo più adolescenti. Quante volte t’ho pensata con rabbia con odio con disprezzo, con implacabile risentimento sono arrivato a volermi convincere che non esistessi più, d’improvviso salti dentro ai miei pensieri, torna la tua voce tornano i tuoi occhi le tue mani ci bastava uno sguardo fugace per intenderci tutto sempre sulle tue povere spalle sei diventata anoressica alla tele hanno detto che gli operai della Indesit rischiano di perdere il lavoro sarai disperata, tu ti chiami Sabina e tu Sabina ricordi come mi chiamo io? Sento una mano posarsi sulla mia spalla, è mio fratello un certo anno un certo giorno non volle saperne più niente di me per lui fui come morto, già da un po’ eravamo due aspetti diversi, io quello di un anarchico irriducibile lui di un piccolo borghese disciplinato, c’eri però Maurizio quando qualcuno ha dovuto insegnarmi a masturbarmi c’eri tu che mi hai insegnato a farmi la barba a guidare a fermarmi sulle strisce pedonali se una persona passava a piedi fosse anche caduto il mondo e c’ero io quando la tua ragazza ti lasciò perdere perché partivi a fare il militare. Gli bastarono due sbattiti di ciglia e ti ferì a morte fratello mio, le lacrime mi si confondono con il dolore, con la gioia, di vedere qua fuori i miei nipoti la tua compagna, e piano piano poi subito da vicino c’è il viso di mio padre, il suo sorriso bonario, un ometto di ottantadue anni, fatto tutto di fatica e sacrifici. Non era questo che speravi per me vero pa?


Ma anche io avrei voluto che passassi più tempo con me e avrei voluto diventare un bravo macchinista come quando eri in vena ci parlavi di Edoardo, di lui che a teatro era come un santo, ci recitavi a memoria intere parti delle sue commedie, volevo fare il tuo stesso lavoro, oggi Cinecittà, domani Barcellona, tra due mesi Israele, e tanti altri posti ancora. Li ho letti nei libri quei posti dove non sono mai stato. Ricordo quando ci portavi all’osteria che Maurizio e io eravamo bambini e tu ti ubriacavi e quando tornavi a casa mamma piangeva e noi altri bambini piangevamo con lei.


Vivevamo al Tufello, un quartiere dove il comunismo era di casa e i comunisti si mettevano d’impegno a cambiare la vita. Ci provarono. Tu pà, avevi le tue debolezze e non hai mai voluto condividerle con noi, te ne andavi per i fatti tuoi e ci abbandonavi. Devo aver preso da te questa piega di spingere fuori dalla mia vita le poche persone che mi vogliono bene, lascia stare il fazzoletto papà che non ti vedo più bene in faccia, la tua faccia sta diventando terra, poi erba, e ora sono sdraiato su un prato, è la tomba di mia madre, sto abbracciando forte quel pezzo di terra dove è seppellita mi rimangono in mano i ciuffi d’erba. Guardo questo cumulo di terra dove là sotto ci sei tu, un grido mi resta soffocato, è colpa tua! Vorrei gridarlo con tutta la voce che posso, sapevi che avevo dei sogni, sapevi che potevo riuscire come te. Come posso accettare tutto questo, non cammino che sopra una nuvola per fuggire dai mostri che mi sono fabbricato e mi tormentano da un tempo che non ricordo nemmeno più ormai dei versi di Kavafis. Chi disse no non si pente si è chiesto ancora direbbe eppure quel no quel giusto no per sempre lo rovina. Provo un’irresistibile attrazione verso il mio abisso, l’impulso di mettermi sempre contro tutto e tutti è più forte di qualsiasi parola buona, è la fonte del mio nutrimento come il seno che mi ha aiutato o forse obbligato a sopportare il mondo appena uscito fuori da dove stavo e non sapevo dove mi trovavo e volevo tornare dove stavo, vorrei dissolvermi, sparire d’un colpo e guardare il mondo senza di me, come sarebbe il mondo senza il mio veleno. Mi avveleno, altri avveleno, lo spazio intorno. C’è qualcosa di irresistibile nell’abisso, ma c’è una soglia, una volta superata questa soglia la potenza dell’abisso si esaurisce. Penso che deve esserci da qualche parte un tempo sospeso dove non occorre forse più avvelenarsi per far valere la propria diversità il proprio diritto a contrastare una realtà che mi ripugna, ma questa realtà ripugna a molti, forse non sono il solo ad averne la nausea.


Ora che sono fuori ho paura, tutti quelli che hanno fatto la galera hanno paura del fuori, sanno che tutto probabilmente ricomincerà come peggio di prima, ma che cosa si può fare, che può fare uno come me?
Che cosa ci resta da fare a noi, tutti quanti noi?


Vorrei entrare con tutto il mio corpo nelle tragedie, nei drammi che ho letto durante le lunghe giornate passate in carcere, vorrei esistere li dentro insieme ai fantasmi che ho fatto rivivere come in quel film che vidi da bambino in televisione della serie ai confini della realtà, dove un’attrice sul viale del tramonto terrorizzata dal presente va a vivere nei suoi fil. Questo desiderio è di qua o di la della soglia?
 

27/02/2015

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