Ligazzo rubio, il filo rosso che mi guida nel labirinto del mondo

Ligazzo rubio, il filo rosso che mi guida nel labirinto del mondo
Antonio Marras è uno dei più importanti stilisti italiani. Nonostante il successo e la grande illuminazione mediatica che ne è conseguita, Marras non ha mai voluto staccarsi dalle sue radici. Per quanto sia stato risucchiato da Milano per logiche di lavoro, non si è mai staccato affettivamente e concretamente dalla sua Alghero. Il rapporto con la terra d’origine è la sua linfa, è un fattore imprescindibile anche a livello creativo. Qui spiega il perché. 
 
La mia terra. Sono riconoscente alla Sardegna, Terra Madre, sono suo figlio e a lei devo tutto. In tempi non sospetti ho sempre cercato di renderle onore e anche quando non era mia intenzione, inconsciamente, le mie origini sono sempre venute fuori. Io mi nutro di Sardegna, io ne approfittato. L’ho scelta per viverci e per lavorarci, perché è il posto più bello del mondo ed è fonte di ispirazione di storie e le storie sono la radice indispensabile per immaginare la mia moda. La Sardegna custodisce più storie dell’Iliade e dell’Odissea, più delle Mille e una Notte, più delle Metamorfosi, della Divina Commedia, della Bibbia e del Corano e dell’Antologia di Spoon River messe insieme. Per questo la Sardegna è sempre presente nei miei lavori. È una terra unica, ma è anche un luogo dove è facile perdersi, perché è la somma di una serie di popoli che l’hanno invasa, stuprata, amata, dove chiunque lasciava delle tracce e dei segni che ogni volta si cercava di cancellare. In realtà questi segni sono rimasti e si sono amalgamati dando vita a un territorio che è una stratificazione di culture fra influssi mediterranei, fenici, punici, bizantini, arabi e così via. È una terra-scrigno dalla quale consciamente o inconsciamente si attinge. Sono convinto che sono quel che sono proprio perché (da algherese, sardo, italiano, cittadino del mondo) sono il risultato di misture, mescolanze, contaminazioni formatesi in Sardegna e nel Mediterraneo nel corso di millenni. Popoli di confine, abituati al contatto e allo scambio, pronti ad andare di porto in porto, a scambiare parole, comunicare, accogliere, accettare l’altro, il diverso, lo straniero, amalgamare culture, tradizioni, usi e costumi, lingua, musica, arte, cibo, abbigliamento. 
 
La mia famiglia
Mia mamma era originaria di Laerru, in provincia di Sassari, era denominata ‘la sarda’ da mio padre algherese doc. Lei mi chiamava «Mai cuntentu» e questo mi rappresenta. Poi diceva: «Sembra che tu abbia fatto la guerra, non ti basta mai niente». Aveva ragione.
Fin da bambino ho frequentato «les bo- tigues», i negozi storici che mio padre e mio zio avevano nel centro storico di Alghero, familiarizzando con stoffe e tessuti di ogni genere. Ho iniziato a lavorare con mio padre, ad occuparmi dei negozi, con i contrasti «tipici» tra un padre e un figlio che svolgono la stessa attività. Uno con l’esperienza e il vissu- to e l’altro con l’entusiasmo e un po’ di arroganza. Mio padre incuteva rispetto. Comprava i tessuti, di cui ancora con- servo centinaia di rotoli, e li rivendeva a sarte oppure a clienti che poi metteva in contatto con le sarte. Anch’io sulla scia del suo insegnamento ho fatto ricorso alle donne che facevano i corredi per le figlie e ho proposto loro di iniziare a fare i cappotti. Sono poi andato oltre.
 
I miei inizi 
Ho iniziato nel '90 con l’Alta Moda. Ovviamente sempre al contrario (di solito l’Alta moda è un traguardo) come mia consuetudine. L’Alta Moda ti permette una conduzione artigianale e ho iniziato con la mamma di Patrizia, sarta e ricamatrice raffinata, a cucire. Io in maniera anarchica e lei rigorosa. Poi abbiamo lavorato con le donne di Ittiri, grazie a Rita, una cara amica eccelsa al lavoro ricamare, all’uncinetto e al telaio. Abbiamo creato un piccolo universo di donne che lavoravano a casa realizzando vere e proprie opere d’arte. Ho insegnato loro a sbagliare, loro erano perfettissime, ho insegnato quello che loro hanno chiamato il «punto bimbo» perché ingenuo, facile, elementare e spesso infarcito di errori. Per loro era inammissibile. Poi la produzione seriale ha un po’ limi- tato queste dinamiche. 
 
Il mio colore 
Ho adottato come portafortuna quello che ho chiamato «ligazzo rubio». È una fettuccia rossa, che per me è un vero e proprio oggetto-simbolo, carico di tanti significati. Lo considero come un filo capace di guidarmi attraverso il labirinto del mondo e di indicarmi la strada; un filo che unisce saldamente affetti, sentimenti, emozioni, e che resiste al tempo e all’usura, tiene unito ciò che parte a ciò che resta. Ha un colore rosso sangue, un cremisi, una punta di bordeaux, immodestamente ribattezzato «rosso Marras». Il colore rosso mi richiama il sangue, inteso come forza vitale, purificazione, rigenerazione, scorrere di esperienze, movimento, cuore, affetti, sentimenti, calore, protezione, passione. Mi piace pensare che questa scelta evidenzi origini lontane. Eredità dei Fenici, il cui nome vuol proprio dire porpora. I Fenici raccoglievano i murici, molluschi da cui ricavavano il pigmento usato per colorare stoffe color rosso porpora, famose in tutto il Mediterraneo. Erano prodotti di lusso estremo, perché da un murice si ricava solo una goccia di porpora. È una storia che richiama a quella che è la missione degli abiti, che non è solo quella di coprire, di tener caldo. Gli abiti cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo. Il vero io è pro- fondamente nascosto e, attraverso gli abiti, si va alla ricerca e scoperta di sé e dell’altro. Non esistono più schemi fissi. Contaminazione è la parola d’ordine. Io vivo di contaminazioni, di mutazioni, di relazioni. 
28/10/2022

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