Portare Don Milani a scuola, oggi

 Portare Don Milani a scuola, oggi
La scuola dovrebbe essere un ascensore sociale. La mia storia lo dimostra. Io sono figlio di genitori che hanno fatto solo la quinta elementare, a casa mia non c’erano libri, io vengo dal basso, dalla cantina, non ho avuto una famiglia ricca dal punto di vista culturale, economicamente non ci mancava niente, però se io non avessi avuto la scuola, non avrei raggiunto gli obiettivi che mi ero proposto. Quindi io credo che la scuola dovrebbe favorire il raggiungimento degli obiettivi. Ma non basta, perché c’è un problema alla base da affrontare: è il problema dell’uguaglianza delle condizioni di partenza. Tutti dovrebbero partire dalla stessa posizione, invece non è così, in quanto ancora oggi chi è avvantaggiato parte 10 metri più avanti rispetto ad un altro. Questo è il tema lanciato da Don Milani. Pierino e Gianni, i due bambini di cui parlava il prete di Barbiana, andavano di fronte alla maestra, recitavano la stessa lezione, poi uno prendeva 8 e uno 6, però Gianni era quello che non aveva mai letto un libro in vita, eppure aveva ripetuto la lezione, Pierino si era limitato a fare il compitino, ma lui era andato al cinema, a teatro, allora ecco che quella prof. avrebbe dovuto calcolare questo scarto, questa differenza fra i due scolari. Ne abbiamo avuto una conferma nel periodo della pandemia, quando chi ha potuto fare la didattica digitale è andato avanti, mentre tanti ragazzi hanno abbandonato la scuola, perché non avevano il computer. Oppure, se l’avevano, non avevano spazi domestici adeguati, wifi, per seguire le lezioni. Così abbiamo avuto un’ondata di abbandono scolastico, a conferma di come il grande tema dell’uguaglianza delle posizioni di partenza sia attuale ancora oggi. La scuola dovrebbe garantire a tutti questo raggiungimento, ma non sempre è così. Per questo dobbiamo lottare affinché ciò accada. 
Il compito della scuola è quello di consegnare il testimone. Scoprire il futuro degli adolescenti che abbiamo di fronte, spesso a loro stessi ignoto. Invece oggi si spinge sulla parola “merito”, pensando che possa essere un motore che fa crescere l’istruzione. Così si rischia di trasformare le nostre aule in campi di gara, dove, dopo apposite performance chiamate interrogazioni, si stabiliscono gerarchie di valore fra chi vince e chi perde. Senza comprendere che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario: vedere l’imperfezione incarnata dal compagno fragile può essere più formativo che gustare la solitudine del campione. Ma se non lo hanno recepito neppure gli adulti, come facciamo a farlo entrare nella testa dei giovani? Invece la scommessa è quella di cambiare l’approccio, fin dal primo gesto della mattina. Quando un docente fa l’appello, deve guardare i suoi studenti e già in quel gesto si prende cura dei ragazzi. Se il docente non fa questo, è inutile che spieghi e vada avanti con il programma. 

La scuola, secondo me, non dovrebbe misurare le competenze dei ragazzi, ma dovrebbe aiutare nella conoscenza della realtà, del mondo; certo, tutta la tradizione del passato, le materie, le lingue sono importanti, però capire che tutta la dimensione culturale, gli apprendimenti devono servire per conoscere il mondo e noi stessi. Ho cercato di dimostrarlo scrivendo un libro come l’Elogio del ripetente: noi ci impegniamo a misurare la competenza, ma a volte il ripetente dice a me adulto, insegnante quello che il ragazzo che ha fatto il pieno di competenze non saprebbe dirmi. Don Milani questo lo sapeva bene. Se non si ha il coraggio di un approccio così, si crea quella che ho definito “la classe pazza”, cioè la classe chiusa che adotta lo schema ermeneutico obbligato dove io spiego, tu riporti quello che io ho spiegato e ti metto il voto, a questo schema che va bene, se ne deve affiancare un altro.  

02/11/2023

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